Vai al contenuto

Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/77

Da Wikisource.

xlvii
     E di ciò ragionando a Clitomede
Che del suo sommo tempio e sacerdote
E le cose future aperte vede
Come noi le passate e le più note:
Doppo alquanto mirar d’un’alta sede
In quai voci presaghe l’ali scuote
Ogni rapace uccel, guardò nel foco,
Ch’è l’elemento suo, pur in quel loco;
xlviii
     Indi a me ritornando in lieto volto
Mi disse: Alto mio re, securo spero
Che ’n sangue e morte l’avversario avvolto
Tosto vedrete, e vincitore intero
Seguran fia, se di quantunque tolto
Avrà di preda al suo nemico fero
La quinta parte almen promette in voto
Al nostro altero Dio piano e devoto;
xlix
     E non lasse passar l’ora fugace
Mentre che Lancilotto sta lontano:
Il qual se con Arturo avrà mai pace,
Ogni nostro sperar sarebbe vano,
Chè morte acerba o gran periglio giace
In quella cruda man per Segurano;
Ma se vorrà di lui schivar la spada,
Sicurissima avrà tutt’altra strada.
l
     Soggiunse poi che vi consiglia ancora
Ch’a singular battaglia oggi chiamiate
Fra ciascun cavalier ch’ivi dimora
Il miglior di valore e di bontate:
Certo che sovra ogn’uom quaggiù v’onora
Il fero Marte, che voi solo amate;
Per cui sarete a somma gloria indotto
Se schivate il furor di Lancilotto.
li
     Nè ciò sembri viltà, ch’avvenir puote
Che sovente in alcun minor virtude
Sia dal girar delle superne rote,
Ond’ogni bene e mal quaggiù si chiude,
Guardata sì ch’ogni sua forza scuote
A qual truovi maggiore, e ’ndarno sude
Ogni altra al contrastar, ch’al fin conviene
Vincitrice esser lei che ’l ciel sostiene.
lii
     Non si deve onorar per saggio o forte
Chi spera il suo valor tòrre alle stelle,
E chi fuor di ragion disprezza morte
Via più ch’ardito e buon crudo s’appelle:
Ceda il mortale alla mortal sua sorte,
Nè stenda le sue voglie empie e rubelle
Oltra l’ordin lassù, ma per la strada
Che glie mostra miglior contento vada.
liii
     S’egli è dato dal ciel che Segurano,
Il cui chiaro valor l’umano ecceda,
Aggia intrepido core, invitta mano
Sì che d’ogni guerrier riporti preda,
Ma la sua sorte al figlio del re Bano,
Ben che di men virtù la palma ceda,
Soffrir conviensi, e ringraziarlo appresso
Che ’l poterla schivar ne sia concesso.
liv
     Qui tacque il re antico; e ’l fero Iberno
Che stima il suo poter sovr’ogni fato
Gli amorosi ricordi prende a scherno,
E risponde in sermon d’ira infiammato:
Or non sapete voi che ’l proprio inferno,
Con quanti ha mostri e furie in ogni lato,
Non desteriano in me tanta paura
Che di forza qual sia tenessi cura?
lv
     Nè sète voi ’l primier, nè Cliotomede,
Che di lui m’ha narrate aspre novelle:
Perchè la fata che nel lago assiede
Mentre il nutria per le stagion novelle
Sovente mi narrò ch’aperto vede,
Per quanto al nascer suo mostrin le stelle
E per quel che Merlin gli solea dire,
Ch’io per la spada sua devea morire.
lvi
     E mentre m’accogliea con quello affetto
Che far si possa un più leale amico,
Quante fiate m’ha piangendo detto
Che si dolea del fato empio nemico,
Cagion che per suo figlio avesse eletto
Chi sormontando il vero onore antico
Farebbe il nome eterno esser di lei,
Ma la fin recherebbe a i giorni miei?
lvii
     E così spesso al mio cospetto poi
Chiamando lui, che fanciullo era ancora,
Giurare il fè sovra i parenti suoi
E per la deïtà che più s’adora
Di non cinger mai spada contro a noi
Per qualunque cagïon portasse l’ora:
Quel ch’ei sempre servò, chè in ogni parte,
Ond’io non sia co’ suoi, da me si parte;
lviii
     Chè mille volte e più, quant’aggio udito
Delle prove ch’ei fa l’altero grido,
Bramoso di veder se sia mentito
Ho cangiato cercandolo arme e lido:
Ma doppo a i primi colpi, ov’ha sentito
Dell’occulto mio gir l’abito infido,
Ripon la spada allor, volge il destriero
E sdegnoso da me torce il sentiero;
lix
     Ond’ho sempre portata e porto doglia,
Che da lui vilipeso esser mi sembra:
E certo son di riportarne spoglia,
Se d’adamante ancora avesse membra.
Minaccie pure il ciel, dica che voglia
Tutto il concilio ch’a predir s’assembra,
Che Lancilotto solo in guerra chiamo
E con sommo desio sol esso bramo.
lx
     Ed a voi, caro suocero e signore,
Dolce padre onorato e re sovrano,
Avrò per obbedir con sommo amore
In ogni stato il cor presto e la mano:
Ma che mai di costui tema il furore
Il vostro affaticar del tutto è vano,
Chè più caro il morir per lui mi fia
Ch’allungar gli anni miei per questa via.