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126 Adolfo Albertazzi


Nessuno infatti, da quando s’eran visti cavalli e carri nel circo, nessuno vi aveva mai dimostrata arte pari alla sua.

Guidava i poledri più focosi e indocili quasi fossero attempati nell’evitar gl’impedimenti e girar le mete; pareva che il più lieve tocco delle sue dita alle redini rilassate avesse una prodigiosa virtù di moderazione o, se bisognava, d’incitamento; ogni studio di agitatori e ogni audacia di giocolieri, compri dagli emuli perchè interrompesse il galloppo, perdesse terreno, si rovesciasse, tornava inutile. E agitava la frusta, ma non percuoteva.

Bello era a vederlo, il ginocchio sinistro fermo all’appoggio del carro, la gamba destra tesa col piede puntato nell’estremo limite a tenersi inconcusso, il petto chino all’innanzi quasi a empirsi dell’ebbrezza de’ suoi corsieri, e il capo drizzato a scorgere, con sguardo imperioso e sereno, certa la gara, libera la vittoria.

— Libanio! Libanio! — acclamava il popolo. Non gridava: — Prasina! — quasi non vedesse più in lui la fazione, ma vedesse lui solo; e l’ansietà delle scommesse era superata dall’ammirazione; e il sole riflettuto dall’elmo, dalla tunica di seta verde e dalle cinghie che la stringevano e increspavano sembrava irradiargli il viso.

Agli occhi di quel pubblico oramai tutto cristiano rifulgeva una apollinea imagine.

Ma adesso Libanio sospirava in una carcere