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182 Adolfo Albertazzi


l’azienda, è bastato avvertirmi che sarà sempre pronto a’ miei comandi; e lo zio e il garzone, più timidi, e gli operai mi fanno scappellate da lungi, e zitti. Quanto a Reno, il compagno che avrò sempre fido, mi dice tante cose, ma senza parlare.

È un grosso cane dagli occhi malinconici, dal muso lungo e dal cranio appuntito: intelligente, e anche con lui ci siamo riconosciuti subito. S’avventa furioso agl’intrusi; me, mi ha accolto scodinzolando, quasi sapesse che sarei arrivato, e mi promette un affetto immenso in ricambio di qualche tozzo di pane. Degli altri animali, non ho da temere nessun disturbo. La cascina con la stalla piena di buoi è discosta; la cavallina pascola queta nel prato; la scrofa e il degno figliuolo si imbrattano lontano... Ho visto, tra le galline, i galletti, i tacchini e le anitre, un’oca; ma che ha a fare un’oca con un letterato che usa penne d’acciaio?

Dunque pace e libertà; ozio e beatitudine!

... Quale sarà la camera dell’inferma?


22 luglio.

Ieri, mentre desinavo al rezzo, è capitato il medico condotto. Saluti; pochi complimenti. Gli ho chiesto: — È grave? — Non ha potuto negare che è uno di quei casi in cui la scienza si rimette ai decreti della natura; però ha soggiunto: — È robusta, e tirerà innanzi un pezzo. — Come a dire: — Stia pur tranquillo; stia allegro. Morirà quando