Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. I, 1960 – BEIC 1723036.djvu/159

Da Wikisource.

PROEMIO DEL LIBRO TERZO




Messere Antonio Alberti, uomo litteratissimo tuo zio, Francesco, quanto nostro padre Lorenzo Alberti a noi spesso referiva, non raro solea co’ suoi studiosi amici in que’ vostri bellissimi orti passeggiando disputare quale stata fosse perdita maggiore o quella dello antiquo amplissimo nostro imperio, o della antiqua nostra gentilissima lingua latina. Né dubitava nostro padre a noi populi italici così trovarci privati della quasi devuta a noi per le nostre virtù da tutte le genti riverenza e obedienza, molto essere minore infelicità che vederci così spogliati di quella emendatissima lingua, in quale tanti nobilissimi scrittori notorono tutte le buone arti a bene e beato vivere. Avea certo in sé l’antico nostro imperio dignità e maiestà maravigliosa, ove a tutte le genti amministrava intera iustizia e summa equità, ma tenea non forse minore ornamento e autorità in un principe la perizia della lingua e lettere latine che qualunque fosse altro sommo grado a lui concesso dalla fortuna. E forse non era da molto maravigliarsi se le genti tutte da natura cupide di libertà suttrassero sé, e contumace sdegnorono e fuggirono e’ ditti nostri e leggi. Ma chi stimasse mai sia stato se non propria nostra infelicità così perdere quello che niun ce lo suttrasse, niun se lo rapì? E pare a me non prima fusse estinto lo splendor del nostro imperio che occecato quasi ogni lume e notizia della lingua e lettere latine. Cosa maravigliosa intanto trovarsi