Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. II, 1966 – BEIC 9707880.djvu/169

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libro terzo 163

è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo questo in me tutto el dì, che ’l mio essere sofferente a me frutta non altro che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti noioso: el soffrire d’ora in ora t’adduce e oppone nuove traverse e dure offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo era periculoso. E quanto e’ sia insuave, molesto, difficile e tedioso el sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando che sia, fra ’l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità, qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi oppressi da e’ nostri casi avversi e dalle ruine de’ nostri tempi? Diranno que’ savi: non curare e’ tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma colui el quale perdette e’ noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette l’altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche, amplitudine, autorità publica e luogo di dignità, e ora si truova in solitudine, assediato da ogni necessità, abietto, destituto, e forse malfermo e poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi forse a costui adducerete que’ detti vulgatissimi e notissimi: non ti dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità. Quando molte cose testé non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in sé ancora e’ suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per quali tutti e’ mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch’io non le curi né desideri? E pure mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench’io mi disponga coll’animo e al tutto m’affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e perduto, pur quando spesso ora vedo e’ luoghi e cose, quando odo e sento questo e quest’altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come non solo dicea Dido presso a Virgilio: agnosco