Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. II, 1966 – BEIC 9707880.djvu/24

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18 rime

     S’i’ fo che viva per me in doglie e pianto,
che util me ne viene, o qual merto?
Straziar chi me ama dà biasmoso vanto.
     Che dirai, Agilitta, adunque? Certo
65s’Archilogo ama me, i’ son superba
sdegnare quel ch’io bramo ed emmi offerto.
     Ma che non rest’io omai essere acerba,
e sempre disputar contro a me stessi?
Se m’ama, e’ s’ami; se [mi] serve, e’ si serva.
     70E’ piange, io piango anch’io. E s’io credessi
durar più giorni in questi miei tormenti,
non so qual morte io non mi eleggessi.
     Agilitta, che fai? Non ti ramenti
quanto ogni cruccio tuo in te sola arda?
75Tu stessa al tuo dolor sempre acconsenti.
     E io mi n’abbia il danno, s’io fui tarda
a ravedermi quale io sia suggetta
a quanto ogni mio sforzo aresta e tarda.
     Sia quell’ora adunque maladetta
80ch’i’ mai ti vidi, Archilago. Tu sei,
tu, tu quel se’ che la mia morte affretta.
     O sfortunata me! Misera oimei!
A che son io, a che son io condutta,
ch’i’ nulla possa in me quanto vorrei?
     85Vorrei d’amore amando essere isdutta;
ma non so come in me ogni mia impresa
sol poi dolermi e pentirmi vi frutta.
     S’io tengo a me me stessa d’ira incesa,
non però posso, Archilago, odiarti;
90e duolmi ingiuriar chi non m’ha offesa.
Ma come poss’io mai non molto amarti?
Archilago, o tu sei un dio in terra;
in te contende ogni laude ad ornarti.
Anzi, ora è il tempo uscir di tanta guerra,
95e gioverammi adoperar mio sdegno,
ora che cruccio Amor fra noi disserra.