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244 deifira

quali meglio si spengono con ruina che con acqua. E quanto io, offeso a torto, certo a ragione mosterrei mio sdegno per non dare di me licenza ad altri più che a me stessi.

Pallimacro. Non credere che giovi, Filarco, no, portare in mano accese le braci per più scaldare altrui: e col mio cruccio infiammare l’ira a chi può in me quanto e’ vuole, sarebbe uno accrescermi tormento.

Filarco. E per meno sentire questi tormenti, poichè si dice l’uno chiodo caccia l’altro, che non accetti tu qual si sia una di tante bellissime e leggiadrissime donne, quali così tutto il dì a te molto si profferiscono? E’ nuovi piaceri discacceranno i tristi antichi tuoi pensieri.

Pallimacro. Io non so donde a me tanto sia nato uno incredibile fastidio verso tutte le femmine, che non posso sanza grave stomaco mirarne alcuna. Solo tu, Deifira mia, non mi dispiaci. Sola Deifira viene agli occhi miei non ingrata.

Filarco. E beato a te, se quanto l’altre tutte meno a te piacciono che Deifira, così tanto più che l’altre a te quest’una Deifira dispiacesse, chè aresti l’animo tuo libero a maggiori tue e molto eterne lode. Ma poichè qui non dài luogo ad altri più facili rimedi, uno solo ci resta, el quale te possa restituire in libertà. Fuggi, Pallimacro, lungi, dove tu nè vegga nè oda ricordare Deifira, nè madre nè sorelle nè de’ suoi alcuno. Quanto più te scosterai, tanto più si straccherà l’amore a perseguitarti. L’amore non molto nutrito in ozio di lieti sguardi e dolci ragionamenti perisce.

Pallimacro. Misero Pallimacro, tu adunque fuggirai la patria tua, parenti, amici tuoi. E qual tuo vizio tanto te priva di così tue carissime e gratissime cose? Ohimè, amare troppo altri più che me stessi così d’ogni mio male mi sta cagione. E tu adunque, Pallimacro, in istrani paesi fuggirai errando solo e molto piangendo la tua miseria. Sfortunato, troppo sfortunato, e qual tuo peccato a te qui mai a te retribuisce tanta infelicità? Ohimè, servire con troppa fede a chi m’è ingrata fa me così troppo essere infelice. Ehi, meschino Pallimacro, tu adunque in essilio starai soffrendo in te pene della ingiustizia d’altrui. E questi nostri, Deifira mia, fra noi lietissimi risi e copertissimi motteggi ora, tua ingiuria, così