Pagina:Alencar - Il guarany, II, 1864.djvu/102

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— Il vostro testamento, padre mio! disse don Diego pallido.

— Sì: la vita appartiene a Dio, e l’uomo che pensa al futuro, deve prevenirlo. È costume incaricare di ciò un notaio; ma nè l’ho qui presente, nè lo giudico necessario. Un fidalgo non può affidar meglio la sua ultima volontà, che a due anime nobili e leali come le vostre. Una carta può perdersi, lacerarsi, andar in cenere; il cuore d’un cavaliere che tiene la sua spada per difesa, e il suo dovere per guida, è un documento vivo e un esecutore fedele. Questo pertanto sarà il mio testamento. Ascoltatemi.

I due cavalieri conobbero dalla fermezza con che parlava don Antonio, che la sua risoluzione era irrevocabile, e si disposero ad udirlo con un senso di mestizia e rispetto.

— Non trattasi di voi, don Diego, il mio patrimonio vi appartiene, come capo che sarete della famiglia; non trattasi di vostra madre, perchè perdendo uno sposo ancor le rimane un figlio affettuoso: vi amo ambedue e vi benedirò nell’ultima ora. Vi hanno però due cose che sommamente apprezzo in questo mondo, due cose sacre, che debbo custodire come un tesoro, anche dopo che sarò partito da questa vita. È la felicità della mia figlia e la nobiltà del mio nome; una fu un dono ricevuto dal cielo, l’altra un legato lasciatomi da mio padre.

Il fidalgo tacque un momento, e dal volto addolorato di don Diego volse lo sguardo sul