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— Rea! Di che?
— In amarvi, disse Isabella arrossendo.
Alvaro si fece di nuovo freddo e riservato.
— So che vi tengo a disagio; ma è la prima e l’ultima volta; uditemi, poscia mi sgriderete, come deve un fratello colla sorella.
La voce d’Isabella era sì dolce, il suo sguardo sì supplichevole, che Alvaro non potè resistere.
— Parlate, sorella mia.
— Sapete chi sono; una povera orfana, che perde la madre molto per tempo, e non conobbe il padre. Vissi della compassione altrui; non mi lamento, ma soffro. Figlia di due razze nemiche, dovea amarle ambedue; e frattanto l’infelice mia madre me ne fece odiar una, il disdegno con cui mi trattarono, mi portò a disprezzar l’altra.
— Povera fanciulla! mormorò Alvaro ricordando per la seconda volta le parole di don Antonio de Mariz.
— Perciò, isolata nel mezzo di tutti, nutrendo appena quel sentimento acerbo che mia madre lasciava nel mio cuore, sentiva la necessità di amare qualche cosa. Non si può viver solamente di odio e di disprezzo!...
— Avete ragione, Isabella.
— Mi è caro che l’approviate. Avea bisogno di amare; avea bisogno di un’affezione che mi legasse alla vita. Non so come, non so quando, cominciai ad amar voi: ma in silenzio, nel profondo dell’anima mia.