Pagina:Alfieri, Vittorio – Della tirannide, 1927 – BEIC 1725873.djvu/291

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dialogo
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ti diceva che uffizio e dovere d’ogni alto ingegno con umano cuore accoppiato si era il tentare almeno di renderle migliori d’alquanto, tramandando ad esse sublimi veritá in sublime stile notate.

Francesco. Sì, mel dicevi, e il rimembro. Ma rispondevati io (ed al mio rispondere, ben mi sovviene, tu muto rimanevi e piangente) rispondevati io che de’ libri, benché pochi sian gli ottimi, e ch’io tali fatti mai non gli avrei, bastanti pure ve ne sono nel mondo a chi volesse ben leggerli, per ogni cosa al retto e sublime vivere necessaria imparare. A ciò ti aggiungea che ufficio e dovere d’uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire; che ogni ben fare essendoci interdetto dai nostri presenti vili governi, e il virtuoso e bello dire essendo stato cosí degnamente giá preoccupato da liberi uomini, che d’insegnare il da lor praticato bene aveano assai maggior diritto di noi, temeritá pareami il volere dalla feccia nostra presente sorger puro ed illibato d’esempio; e che viltá mi parea lo imprendere a dire ciò che fare da noi non si ardirebbe giammai; e che stolto orgoglio in fin mi parea l’offendere i nostri conservi con liberi ed alti sensi che i loro non sono, poiché pur si stanno; i quai sensi in me piú accattati da’ libri che miei propri, riputerebbero essi, e con ragione forse, vedendomi di sí alti sensi severo maestro, e di sí vile vita quale è la nostra arrendevol discepolo.

Vittorio. Che tu, figliuol di te stesso, per te stesso altamente pensavi io ben lo seppi, che vivo conobbiti; saputo del pari lo avrebbero con lor vantaggio e stupore quegli uomini tutti che da’ tuoi scritti conosciuto ti avessero. Ma in te piú lo sdegno dei presenti tempi potea, che l’amor di te stesso e d’altrui.

Eppure degno non eri, né sei, di questa morte seconda; e se io lena e polso mi avessi, se dal pietoso, alto e giusto desío d’onorare eternando il tuo nome, pari all’ardore le forze traessi; se in pochi, ma caldi periodi mi venisse pur fatto di esprimere la quintessenza, direi della sublime tua anima, di quella fama che tu non curasti, verrei forse io in tal guisa ad acquistartene parte; non tutta, no, mai; che ciò solo alla tua luce creatrice