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libro i - capitolo vi
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le parole. Si osservi soltanto che non esiste ministro nessuno che voglia perder la carica; che ninna carica e piú invidiata della sua; che niun uomo ha piú nemici di lui, né piú calunnie, o vere accuse, da combattere; ora, se la virtú per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro e all’invidia, ne lascio giudice ognuno.

Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l’abuso di un potere abusivo giá per se stesso. Crescono la potenza e l’abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito; perché questo tiranno elettivo e causale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una persona di piú da difendersi richiede necessariamente piú mezzi di difesa; e un’autoritá piú illegittima richiede mezzi piú illegittimi. Perciò la creazione o l’intrusione di questo personaggio nella tirannide si dée senza dubbio riputare come la piú sublime perfezione di ogni arbitraria potestá.

Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore l’universale dei sudditi suoi; ma, non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private, gl’individui non odia. La spada sta dunque, fin ch’egli stesso la tiene, in man di un uomo che, per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma tosto ch’egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell’autoritá ad un suddito, che si è veduto degli eguali e dei superiori, ad uno che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dée sommamente essere odiato dai molti e dai piú; chi ardirá mai credere allora, o asserire o sperare che costui non ferisca?