Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
atto terzo | 147 |
SCENA QUARTA
Creonte, Giocasta, Antigone, Polinice.
dubbio orribile trammi... Esser può mai?...
Dimmi...
Creon. Letizia, e vera pace io porto:
donne, asciugate il ciglio. È Polinice
il nostro re. — Primo a prestarten vengo
l’omaggio...
Polin. A me ne fia lo augurio lieto:
chi, piú di te, vedermi brama in trono?
Gioc. Vero parli?
Creon. Sgombrate ogni sospetto;
cacciato io pure ogni sospetto ho in bando:
Eteócle cangiossi; e omai...
Polin. Cangiossi
Eteócle? — Creonte, a me tu il dici?
Creon. Svaní per or la trama.1 — È ver, che vani
a piegarlo pur troppo eran miei sforzi,
s’altra non si aggiungea ragion piú forte.
Mormora in Tebe ogni guerriero, e viene
ritroso all’armi a pro di un re spergiuro.
Il mal talento universal lo stringe;
nol dice ei giá; ma, chi nol vede? è vinto
dalla necessitá; pur d’alti sensi
velarla vuole.
Gioc. Assai ti udia diverso
giá favellar di lui.
Creon. Temprare il vero
spesso in molli lusinghe al re mi udisti;
nol niego io, no: ma il favellargli aperto
concede ei mai? Dura, e non nobil arte,
- ↑ Sommessamente a Polinice.