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in cui dal trono io volontario scendo.

Polin. Alti sensi, alto core! — Ed io terrotti
magnanimo qual parli; e il sei tu forse.
Nostr’opre, e il tempo, il mostreran, se pari
noi siam del tutto. — Io dirti so, che il trono
mai non mi parve men pregevol ch’oggi;
oggi, che il debbo io racquistare. Io primo
non son motor di pace; eppur nel core,
piú ch’altri forse, e fin nel brando, ho pace. —
Se in Argo ancor non rimandai gli Argivi,
tu la cagione appien ne sai...
Eteoc.   Che parli?
Donde saperla? entro al tuo cor chi legge?
Terrai lo scettro; e fia, che allor si mostri
l’eroe, quant’è. Piú che nol sembri, o sei,
grande vorria tu fossi a pro di Tebe. —
Mai non può vile invidia in me la pace
intorbidar dell’alma; assai mi giova,
se a Tebe giova, il tuo regnare; andarne
bench’esul debba io dalla patria, sempre
dividerò con essa al par l’avversa,
e la prospera sorte: io, maggior sempre
del mio destino (e sia qual vuol) sarommi:
e, in qual sia terra il ciel mi ponga, i Numi
offrir pel regno tuo voti mi udranno.
Polin. Il duro esiglio anch’io provai, disgiunto
da quanto havvi tra noi mortali in terra
di sacro e caro. Ove piú fera pena
d’ogni piú crudo esiglio a te non fosse
il vedermi oggi sovra il giá tuo soglio,
io t’offrirei, nella mia reggia, in Tebe,
inviolabile asilo: ma, l’udirti
appellar tu suddito mio, quí, dove
regnasti a lungo, al tuo gran cor fia troppo...
Eteoc. L’alterna legge appien tra noi si osservi:
potria quí forse or la presenza mia