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atto quarto 151
destar tumulti, e mal mio grado. In Tebe

privati giorni in securtade trarre
potrei, s’io nullo, oltre al fratel, vi avessi
da temer; ma il sospetto, ognor natura
fassi, in cor di chi regna: e (assai pur n’abbia)
virtú mai tanta un re non ha, che al tutto
cacci la iniqua diffidenza in bando:
sul trono anch’ella, e di lusinga al pari,
siede al regio suo fianco. — Io no, non debbo
quí rimaner; non pel riposo tuo,
non pel riposo mio. Parto: men desti
l’esemplo giá: — sol nell’uscir di Tebe
spero imitarti; ma in tutt’altra guisa,
che tu nol fai, tornarvi.
Polin.   E giusta speme
nudrisci in te; speme, che mal tuo grado
mostra, che me spergiuro esser non tieni;
e che ben sai, che a rammentar mia fede
d’uopo il brando non è.
Gioc.   Che ascolto, o figli?
Oh quali accenti! oh ciel! tralucer veggo,
ad ogni detto, ad ogni cenno, in voi
la non estinta e mal celata rabbia. —
Questo il giorno non è, non l’ora questa
da voi prefissa a terminar le inique
contese vostre? e non è questo il loco,
ove il già rotto giuramento or dessi
rinnovellar con miglior fede! Oh! quanto
mal co’ mordaci detti opra sí fatta
s’incomincia da voi! ciascun di pace
sul labro ha il nome, e in sen la guerra acchiude:
ciascun vuol fe; nessun minacce vuole;
ma ognun minaccia, e ognun sua fede niega:
e, giá pria di giurar, spergiuri forse...
Or via, che vale il differir, se tali
non sete voi?