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atto terzo | 303 |
faccia Atride di me, ciò ch’ei vorria
ch’altri fesse di lui, se Egisto ei fosse.
Agam. Egisto io?... Sappi; in qual ch’io fossi avversa
disperata fortuna, il pié rivolto
mai non avrei, mai di Tieste al seggio. —
Ch’io non ti presti orecchio, in cor mel grida
tale una voce, che a pietá lo serra. —
Pur, poiché vuoi la mia pietá, né soglio
negarla io mai, mi adoprerò (per quanto
vaglia il mio nome, e il poter mio fra’ Greci)
per ritornarti ne’ paterni dritti.
Va lungi d’Argo intanto: a te dappresso
torbidi giorni, irrequiete notti
io trarrei sempre. Una cittá non cape
chi di Tieste nasce, e chi d’Atréo.
Forse di Grecia entro al confin, vicini
pur troppo ancor siam noi.
Egisto Tu pur mi scacci?
E che mi apponi?
Agam. Il padre.
Egisto E basta?
Agam. È troppo.
Va; non ti vegga il sol novello in Argo;
soccorso avrai, pur che lontano io t’oda.
SCENA TERZA
Agamennone, Elettra.
un non so qual terrore in me sentiva,
non mai sentito pria.
Elet. Ben festi, o padre,
d’accomiatarlo: ed io neppur nol veggo,