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330 oreste



SCENA SECONDA

Clitennestra, Elettra.

Cliten. Figlia.

Elet.   Qual voce? Oh ciel! tu vieni?...
Cliten.   O figlia,
deh! non sfuggirmi; io la sant’opra teco
divider voglio; invan lo vieta Egisto:
ei nol saprá. Deh! vieni; andiam compagne
alla tomba.
Elet.   Di chi?
Cliten.   ... Del... tuo... infelice...
padre.
Elet.   Perché non dir, del tuo consorte?
Non l’osi; e ben ti sta. Ma il piè ver esso
come ardirai tu volgere? tu lorda
ancor del sangue suo?
Cliten.   Scorsi due lustri
son da quel dí fatale; il mio delitto
due lustri interi or piango.
Elet.   E qual può tempo
bastare a ciò? fosse anco eterno il pianto,
nulla saria. Nol vedi? ancor rappreso
sta su queste pareti orride il sangue,
che tu spargesti: ah! fuggi: al tuo cospetto,
mira, ei rosseggia, e vivido diventa.
Fuggi, o tu, cui né posso omai, né debbo
madre nomar: vanne; dell’empio Egisto
riedi al talamo infame. Al fianco suo
tu sua consorte sta: né piú inoltrarti
a perturbar le quete ossa d’Atride.
Giá giá l’irata sua terribil ombra
sorge a noi contro, e te respinge addietro.
Cliten. Fremer mi fai... Tu giá mi amasti,... o figlia...
Oh rimorsi!... oh dolore!... ahi lassa!... E pensi,