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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/145

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atto terzo 139
forti divini detti in cor mortale

mai non spirò di libertade il Nume.
Giá del furor, che lui trasporta, ho pieno,
invaso il petto. E tu, pur reggi, o crudo,
alla immagine viva, e orribil tanto,
della empia vita, in cui t’immergi?
Timof.   — Ah! forse,
voi dite il vero. — Ma non v’ha piú detti,
e sien pur forti, che dal mio proposto
svolger possanmi omai. Buon cittadino
piú non poss’io tornare. A me di vita
parte or s’è fatta, la immutabil, sola,
alta mia voglia; di regnar... Fratello,
tel dissi io giá: corregger me sol puoi
col ferro: invano ogni altro mezzo...
Timol.   Ed io
a te il ridico: non avrai mai regno,
se me tu pria non sveni.
Echilo   E me con esso.
All’amistá, ch’ebbi per te, giá sento
viva in me sento, ed ardente, ed atroce
sottentrar nimistá. Mi avrai non meno
duro, acerbo, implacabile nemico,
che prode amico vero sviscerato
mi avesti un dí. Né a te son io, ben pensa,
com’ei, fratello. — Io, del tiranno in faccia,
quí intanto a te, Timoleone, io giuro
fede eterna di sangue. Ogni inaudito
sforzo far giuro per la patria teco:
e se fia vana ogni nostr’opra, ad essa
né un sol momento sopravviver giuro.
Timol. Deh! mira, insano; or se cotanto imprende
chi giá ti fu sincero amico, e stretto
t’è ancor di sangue, che faran tanti altri
oltraggiati da te?
Timof.   Basta. — Vi volli