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atto quarto | 149 |
sol quanto è d’uopo a porlo in salvo. Io tremo,
ch’ei non si ostini a voler irne al loco
convenuto con Echilo: securi
saran quí solo appieno...
Demar. E s’anco io valgo
a trarlo quí, misera me! quand’egli
la strage udrá,... forse,... oh terribil giorno!...
ei di vendetta allora...
Timof. Ei può cangiarsi,
quando vedrá ch’io risparmiar lo volli:
ma svenarmi anco puote: e il faccia; ei solo
il può: questa mia vita ei si ripigli,
poiché a me la salvava: — ma il mio regno,
ch’io m’acquistai, ritormi? né il può il cielo,
s’arso ei non hammi e incenerito pria.
SCENA TERZA
Echilo, Demarista, Timofane.
di generosa nimistade or vedi:
e il primo stral ch’io ti saetto, è il dirti
liberamente, che a momenti piomba
un mortal colpo entro al tuo seno.
Demar. Ah! figlio,
io non ti lascio... Al fianco tuo... T’arrendi?...
Deh! credi a quest’uom prode... Oh ciel!... che fai?...
Timof. Tutto ho d’acciar contra ogni strale il petto.
Intrepido vi attendo.
Echilo — Odimi: teco
non fui piú schietto io mai: di cor ti parlo;
né, per esserti avverso, ho il cor cangiato,
se non in meglio: ascoltami. — Per quanto
sii valente, non sei pur altro ch’uno;