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atto quinto 153
Timol.   Che sento?

A comune periglio osi tu schermo
farmi d’infame ostello? Ah! mal cominci.
Echilo Ammenderò con miglior fin, tel giuro,
cotal principio: ma, te salvo io volli.
Timol. Or, che sai dunque tu?... qual è il periglio?...
Echilo Poco di certo io so; ma tutto io temo:
e mi vi si sforza il baldanzoso volto
del securo Timofane; e l’aspetto
tremante della madre irresoluta.
Que’ satelliti suoi, che dal nostr’oro
compri, promesso avean spíar suoi passi,
e farne dotti noi, scoperti e uccisi
sono ad un tempo. In chi fidar non resta.
Scoperto è pure il convenuto loco
dell’adunanza nostra.
Timol.   — Oh fatal giorno!...
Temuto dí! giunto sei tu? — Traditi,
dubbio non v’ha, noi siamo... Oggi e il coraggio,
e il patrio amor, tutto addoppiar n’è d’uopo.
Forza a noi non fu mai d’alma piú saldi
mostrarci, ch’oggi; e, che peggio è, mostrarci
finti, com’oggi, non fu forza mai.
Echilo Tosto volar l’avviso ai nostri io fea,
ch’era periglio in adunarsi. Duolmi,
oh ciel! che a messo non sicuro forse
io l’addossai: ma brevitá di tempo,
ed ansietá di te primier sottrarre,
m’han fatto incauto.
Timol.   Ogni uom sottrar tu prima
di me dovevi. E qual potea ventura
miglior toccarmi? io colla patria spento
cadea: qual serbo altro desio, che morte? —
Misero me!... Perché salvarmi? a quale
dura vicenda resto?
Echilo   In salvo or sei: