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166 | merope |
a lagrimar degg’io... Se non ti sieguo,
deh! perdona, o consorte: al comun figlio
vissi finor; s’ei piú non è... Ma, viene...
Chi?... Polifonte! Sfuggasi.
SCENA SECONDA
Polifonte, Merope.
Perché sfuggirmi? Io gravi cose a dirti...
Mer. Io niuna udirne da te voglio...
Polif. O donna,
dunque né tempo, né ragion, né modi,
né preghi miei, nulla bastar può dunque,
a raddolcir l’ira tua acerba? Il fero
tuo duol, ch’io tender quasi a fin vedea,
dimmi, perché da ben un anno or forza
vie piú racquista; e te di te nemica
cotanto fa? Tu mi abborrisci; e il vuole,
piú che il mio fallo, il mio destin, pur troppo. —
Tel giuro, io volli al tuo consorte il seggio,
non mai la vita torre: ma la foga
come affrenar de’ vincitor soldati?
Ebri di sangue, i miei guerrier fin dentro
a questa reggia il perseguian; né trarlo
io di lor mano vivo potea. Nemico
gli fui, ma a dritto. Io pur del nobil sangue
degli Eraclidi nato, a lui lo scettro
abbandonar non ben potea, soltanto
perché l’urna gliel dava. — Ma, di madre,
e di consorte il giusto duol non ode
ragion, né dritti, ancor che veri. — Io bramo
sol di saper, donde il tuo antico sdegno
esca novella or tragge. Ognor piú forse