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atto secondo 13
se ardea pur anco di valor favilla

in cor de’ suoi, tosto si spense; e cadde
ogni orgoglio col duce.
Almac.   A prova poni,
Ildovaldo, il mio core. Havvi nel mondo
cosa, ove intenda il desir tuo? Deh! parla;
nulla t’ardisco offrir; ma puoi (chi ’l puote
altri che tu?) dirmi qual sia mercede,
che offenda men la tua virtú.
Ildov.   Vestirmi
di sviscerato amico tuo sembianza,
prence, non vo’, poich’io tal non ti sono.
Men te, che il trono, oggi a salvare impresi;
trono, la cui salvezza oggi pendea
dal viver tuo. Potrebbe il regio dritto
spettare un giorno forse a tal, cui poco
parriami dar, dando mia vita: io quindi
aspro ne fui propugnatore. Il vedi,
che a te servir, non fu il pensier mio primo.
Nulla mi dei tu dunque; e dall’incarco
di gratitudin grave io giá t’ho sciolto.
Almac. Ti ammiro piú, quant’io piú t’odo. Vinto
pur non m’avrai nella sublime gara.
Me tu non ami, ed altri a me giá il disse;
pur di affidarti della pugna parte,
e la maggior, non dubitava. Or biasmo
giá non ti do, perché a pugnar ti mosse
la vilipesa maestá del soglio,
piú che il periglio mio. So, che non debbe
illustre molto a pro’ guerrier qual sei
parere il mezzo, onde sul trono io seggo:
primo il condanno io stesso: ma, qual fera
necessitá mi vi spingesse orrenda,
tu, generoso mio nimico, il sai.
Suddito altrui me pur, me pur tuo pari
vedesti un dí; né allora, (oso accertarlo)