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atto secondo 17
Clefi coll’armi non veniva in campo;

distruggitor del trono ad alta voce
ei s’appellava; io combattea pel trono.
Romil. O in libertade questa oppressa gente
Clefi ridur, com’ei dicea, volesse,
o per se regno; ad ottener suo intento
mezzi adoprava assai men vili ognora,
di chi l’ottenne pria. Da prode, in campo,
alla luce del sole, ei l’armi impugna:
e, s’era pur destin, che sul paterno
vuoto mio soglio usurpator salisse,
dovea toccare al piú valente almeno.
Almac. Codardo me v’ha chi nomare ardisca?
Ad assalire il trono altri mostrossi
piú forte mai, ch’oggi a difenderl’io?
Mai non perdoni tu? l’error, ch’io feci
mio mal grado, (il san tutti) io solo il posso
forse emendare; io, sí. Dolce mi fia
renderti ben per male: ho col mio sangue
difeso intanto il vuoto soglio; è tuo
il soglio, il so; mai non l’oblio, tel giuro.
Per quanto è in me, giá lo terresti. Il preme
Rosmunda, ed è...
Romil.   Contaminato soglio,
di tradimenti premio, altri sel tenga;
Rosmunda il prema, ella con te n’è degna. —
Ma, se pur finto il tuo pentir non fosse;
se a generosi detti opre accordarsi
potesser poi d’alma giá rea; mi ottieni,
non regno, no, dalla crudel madrigna;
sol di me stessa ottieni a me l’impero.
Libera vita io chieggo; o morte io chieggo.
Quasi appien giá nel mio svenato padre
non avess’ella sfogata sua rabbia,
l’empia Rosmunda, or per piú strazio darmi,
in vita vuolmi, e ad Alarico sposa.


V. Alfieri, Tragedie - II. 2