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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/266

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260 maria stuarda
che re, consorte, e genitor tu sei.

Arrigo So quale incarco è il mio: se me da tanto
io finor non mostrai, ne sia la colpa
di chi mel tolse. Io voglio oggi, piú ch’altri,
contraccambiare con l’amor l’amore;
ma, col disprezzo l’arte. — A chiarir tutto,
bastante è il dí. Vedrò de’ tuoi nel volto,
alta norma di corte, il pensar tuo.


SCENA QUARTA

Maria, Botuello.

Bot. Poss’io venir della tua nuova gioja

testimon lieto? Il ricovrato sposo,
di’, qual ti par? migliore assai...
Maria   Lo stesso.
Che dico? ei mesce ora allo sdegno antico
un derisor sorriso: a scherno or prende
i detti miei. Misera me! Qual mezzo
piú omai mi resta a raddolcirlo? Io parlo
d’amore; ei parla di possanza: io sono
l’oltraggiata, ei si duole. Invaso e guasto
d’ambizíon, ma non sublime, ha il core.
Bot. Ma pur, che chiede?
Maria   Illimitata possa.
Bot. L’hai tu, per darla?
Maria   Ei chiamerebbe or poca,
quanta glien diedi pria ch’ei mi astringesse
a ripigliarla. Appien dato all’oblio
ha i perigli, ond’io ’l trassi.
Bot.   Eppur non puoi,
senza tuo biasmo, al tuo consorte or nulla
negar di quanto è in te. Ciò ch’ebbe dianzi,
ciò che a lui dan le leggi, anco a tuo costo,