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atto terzo 321
Or, qual estranea mai lontana terra

(e selvaggia ed inospita pur sia)
increscer puote, a chi la propria vede
schiava di crude ed assolute voglie?
Ti sia esemplo il mio figlio, se omai dessi
da medícei signori attender altro,
che oltraggi e scorni. Invano, invan ti veste
Roma del sacro ministero: il solo
lor supremo volere è omai quí sacro.
Raim. Padre, e il sai tu, s’egli or quí venga armato
di sofferenza, o di men vile usbergo?
Salv. Vengo di fera e d’implacabil ira
aspro ministro: apportator di certa
vendetta intera, ancor che tarda, io vengo.
Dall’infame letargo, in cui sepolti
tutti giacete, o neghittosi schiavi,
spero destarvi, or che con me, col mio
furor, di Sisto il furor santo io reco.
Gugl. Arme inutile appieno: in noi non manca
il furor no; forza ne manca; e forza
or ci abbisogna, o sofferenza.
Salv.   E forza
ora abbiam noi, quanta piú mai se n’ebbe.
Io parole non reco. — Odi, che esporti
mi tocca in brevi e forti detti il tutto.
V’ha chi m’impon di ritornarti in mente,
ove tu possa rimembrarla ancora,
la tua prisca fierezza e i tempi antichi:
ove no; mi fia d’uopo addurti innanzi
l’altrui presente e in un la tua viltade.
S’entro alle vene tue sangue hai che basti
contr’essa, da noi lungi or non son l’armi:
giá d’Etruria alle porte ondeggia al vento
roman vessillo; e, assai piú saldo ajuto,
di Ferdinando la regal bandiera,
cui le migliaja di affilati brandi


 V. Alfieri, Tragedie - II. 21