Vai al contenuto

Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/328

Da Wikisource.
322 la congiura de’ pazzi
sieguon di pugna impazíenti, e presti

a imprender tutto a un lieve sol tuo cenno.
Ormai sta in te degli oppressor la vita,
il tuo onor, quel del figlio, e di noi tutti
la libertá. Ciò che ottener dal brando,
ciò che viltá toglier ti puote; i dubbi,
le speranze, i timori, e l’onte, e i danni,
tutto ben libra; e al fin risolvi.
Gugl.   Oh! quali
cose a me narri? Or fe poss’io prestarti?
Chi tanto ottenne a nostro pro? Finora
larghi soltanto di promesse vuote,
lenti amici ne fur Fernando e Sisto:
or chi li muove? chi?...
Raim.   Tu il chiedi? Hai posto
dunque in oblio tu giá, che al Tebro, e al lito
di Partenope fui? ch’io v’ebbi stanza
ben sette lune, e sette? Ove poss’io
portare il piè, che sdegno e rabbia sempre
meco non venga? Infra qual gente io trarre
posso i miei dí, ch’io non le infonda in petto
l’ira mia tutta; e in un di me, de’ miei
non le inspiri pietade? Omai, chi sordo
resta ai lamenti miei? — Per onta nostra,
tu sol rimani, o padre; ove dovresti
piú d’ogni altro sentir s’ei pesa il giogo:
tu, che a me padre, al par di me nimico
sei de’ tiranni; e da lor vilipeso
piú assai di me: tu cittadin fra’ buoni
ottimo giá; per lo tuo troppo e stolto
soffrire, omai tu pessimo fra’ rei.
Col tuo vile rifiuto, a noi perenni
fa i ceppi, e a te l’infamia; ognun ci scorga
ben di servir, ma non di viver, degni:
finché non sia piú tempo, aspetta tempo:
quei crin canuti a nuove ingiurie serba;