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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/337

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atto quarto 331
me non udreste or favellar; né visto

tremar mi avreste, ed obbedire. — Incontro
a nemici quai siamo, (è ver pur troppo!)
arme bastante è il ben usato sprezzo. —
Ecco, ch’io non tiranno, assai ben, parmi,
di tirannide a te l’arti, le leggi
prescrivo, e l’opre, e la ragion sublime.
Giul. Che vuoi tu dirmi? e nol conosco io forse
al par di te, questo tuo figlio?
Gugl.   E il temi?
Giul. Temuto, io temo. — Il simular fia vano.
Fra noi si taccia ogni fallace nome;
non patria omai, non libertá, non leggi:
dal solo amor di se, dall’util certo,
dalla temenza dei futuri danni,
piú vera prenda ognun di noi sua norma.
Lorenzo in se tutti rinserra i pregi,
onde stato novel si accresce e tiene,
men l’indugio, e il timore: a me natura
diede altra tempra; e ciò che manca in lui,
in me soverchio è forse: ma, tremante
non stai tu piú di me? non veggo io sculta
la tua temenza in tuoi piú menomi atti?
so, che non è piú saldo in onda scoglio,
di quel che sieno in lor proposto immoti
e Lorenzo e Raimondo: han pari l’alma;
la forza no: ma pari è il temer nostro.
Qual io mi adopro or col fratel, ti adopra
col figlio tu: forse vedremo ancora
altri tempi. Pochi anni hai tu di vita;
ma questa (il sai) benché affannosa, e grave,
pur viver brami; e sopportata l’hai...
Vuoi tu serbarla? di’.
Gugl.   Timor di padre,
e timor di tiranno in lance porre,
altri nol puote che un tiranno e padre.