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356 don garzia
infra gli ozj di corte, io quí parlassi,

padre, tu a lungo or non mi udresti. Dura,
diffidi, vana, e perigliosa impresa
fia ’l rattemprar signor, che mai d’avversa
sorte non vide il minaccioso aspetto.
Ma, Cosmo, tu, che i tuoi giovenili anni
lungi dal trono, e dalle sue speranze,
fra i sospetti vivesti; or trafugato
dalla madre sul Tebro, or d’Adria in riva,
or del Ligure alpestre agli ermi scogli;
tu, che dell’odio poderoso altrui
provasti il peso, ora benigno orecchio
prestami, prego. — Alla medicea stirpe,
da piú lustri, a vicenda, arte, fortuna,
forza, e favor, dier signoril possanza;
cui piú splendor, nerbo, e certezza poscia
tu aggiungesti ogni dí. Tu sai, che invano
l’uccisor d’Alessandro asilo e scampo
sperò trovare in libera contrada.
Tuo brando il giunse entro Vinegia; ei giacque
inulto lá, dove il poter si vanta
sol di libere leggi: il Leon fero
uccider vide infra gli artigli suoi
chi troppo stava in suo ruggir securo:
videlo, e tacque: e il tuo terribil nome
fea d’Italia tremar l’un mare e l’altro.
Che brami or piú? senza nemici regno?
Ciò non fu mai: spegnerli tutti? e ferro
havvi da tanto? Agli avi tuoi pon mente:
qual finor d’essi sen moria tranquillo,
possente, e amato? il solo Cosmo; quegli
ch’ebbe poter, quanto glien diero; e a cui
piú assai ne aggiunse, il men volerne. Or, mira
gli altri: Giulian trafitto; a stento salvo
il pro Lorenzo: espulso Piero: ucciso
Alessandro. Eppur, mai non fur costoro