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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/371

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atto secondo 365
Son di mia stirpe, e di mio impero, io ’l capo;

io l’alma son, donde s’informi ogni altra
viva persona quí. — Né al reo Garzía
un cenno pur, pria di punirlo, io dava,
s’ei figlio a me non era. In lui piú grave,
certo, è l’error; ma voglio, anzi al gastigo,
sola una volta ancor fargli udir voce,
che da tristo sentiero indietro il tragga.


SCENA SECONDA

Cosimo, Eleonora, Piero.

Piero Padre, altissimo affare a te mi mena:

teco esser deggio a lungo.
Cosimo   Oh! qual ti leggo
sul volto afflitto strano turbamento?
Parla; che avvenne? di’.
Piero   Narrar nol posso,
se non a te.
Eleon.   Qual sí novella cosa
narrar può un figlio al genitor, che udirla
una madre non possa?
Cosimo   È ver, son padre,
ma prence a un tempo: né il gravoso incarco
delle pubbliche cure assunto hai meco,
donna, finor; né il vuoi tu assumer, s’io
ben scerno...
Eleon.   Il ver tu scerni. Ebbi le rive
lasciate appena del natío Sebéto,
ch’io, compagna a te fatta, ogni pensiero,
ogni mio amore, ogni mio fine acchiusi
fra queste regie mura. In me trovasti
sposa ed ancella, e nulla piú. Ben vidi,
che il mio signor tutte credea raccolte
entro al cieco obbedir d’amor le prove: