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106 agide
Anfar.   Il sete, ora, da questi

sedizíosi detti...
Agide   Efori, or quanto
vi avanza a dir, m’è noto. — Appien compito
ho di un re cittadin l’ufficio estremo.
Io riedo al carcer mio, dalle cui mura
nulla uscirá d’Agide omai, che il nome.


SCENA QUARTA

Leonida, Anfare, Popolo, Efori, Senatori.

Popolo Ei qual reo non favella: è forza averne

maraviglia, e pietade.
Leon.   È ver, Spartani:
sedotto ei fu da Agesiláo; par degno
di perdono il suo errore. Il chieggo io stesso
da voi, per lo mio genero; per quello,
che la vita salvommi...
Anfar.   Or stai davanti
al senato ed agli efori: con essi
parlar tu dei, Leonida. Le tue
ragion private ai pubblici delitti
non tolgon pena; né il perdon precede
mai la condanna.
Leon.   Io, non che darla, udirla
né pur vo’ dunque. Agide a morte porre
non volli io, no, benché morire ei merti.
Trarlo fuor dell’asilo, udirlo, e innanzi
ai giudici convincerlo; ciò solo
importava, ed io ’l feci: altro non resta
a far contr’esso. — Ah! se del popol voce,
se del re preghi vagliono al cospetto
del senato e degli efori, da loro
vedrassi (io spero) di clemenza, in breve,
nobile al par che memorando esemplo.