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246 mirra
tue vendette. Scontare, ecco, a me fai,

in questa guisa, il mio parlar superbo.
Ma, la mia figlia era innocente; io sola,
l’audace io fui; la iniqua, io sola...
Ciniro   Oh cielo!
che osasti mai contro alla Dea?...
Cecri   Me lassa!...
Odi il mio fallo, o Ciniro. — In vedermi
moglie adorata del piú amabil sposo,
del piú avvenente infra i mortali, e madre
per lui d’unica figlia (unica al mondo
per leggiadria, beltá, modestia, e senno)
ebra, il confesso, di mia sorte, osava
negar io sola a Venere gl’incensi.
Vuoi piú? folle, orgogliosa, a insania tanta
(ahi sconsigliata!) io giunsi, che dal labro
io sfuggir mi lasciava; che piú gente
tratta è di Grecia e d’Oríente omai
dalla famosa alta beltá di Mirra,
che non mai tratta per l’addietro in Cipro
dal sacro culto della Dea ne fosse.
Ciniro Oh! che mi narri?...
Cecri   Ecco, dal giorno in poi,
Mirra piú pace non aver; sua vita,
e sua beltá, qual debil cera al fuoco,
lentamente distruggersi; e niun bene
non v’esser piú per noi. Che non fec’io,
per placar poi la Dea? quanti non porsi
e preghi, e incensi, e pianti? indarno sempre.
Ciniro Mal festi, o donna; e fu il tacermel, peggio.
Padre innocente appieno, io co’ miei voti
forse acquetar potea l’ira celeste:
e forse ancor (spero) il potrò. — Ma intanto,
io pur di Mirra or nel pensier concorro:
ben forza è torre, e senza indugio nullo,
da quest’isola sacra il suo cospetto.