io, che il gran Cato infra mie braccia vidi
in Utica spirare. Ah! fosser pari
mie’ sensi a’ suoi! Ma in brevitá fien pari,
se in altezza nol sono. — Altri nemici,
altri obbrobrj, altre offese, e assai piú gravi,
Roma punire e vendicar de’ pria
che pur pensare ai Parti. Istoria lunga,
dai Gracchi in poi, fian le romane stragi.
Il foro, i templi suoi, le non men sacre
case, inondar vedea di sangue Roma:
n’è tutta Italia, e n’è il suo mar cosperso:
qual parte omai v’ha del romano impero,
che non sia pingue di romano sangue?
Sparso è forse dai Parti? — In rei soldati
conversi tutti i cittadin giá buoni;
in crudi brandi, i necessarj aratri;
in mannaje, le leggi; in re feroci
i capitani: altro a patir ne resta?
Altro a temer? — Pria d’ogni cosa, io dunque
dico, che il tutto nel primier suo stato
tornar si debba; e pria rifarsi Roma,
poi vendicarla. Il che ai Romani è lieve.
Anton. Io, consol, parlo; e spetta a me: non parla
chi orgogliose stoltezze al vento spande;
né alcun lo ascolta. — È mio parere, o padri,
che quanto il nostro dittatore invitto
chiede or da noi, (benché eseguire il possa
ei per se stesso omai) non pure intende
a tutta render la sua gloria a Roma,
ma che di Roma l’esser, la possanza,
la securtá ne pende. Invendicato
cadde in battaglia un roman duce mai?
Di vinta pugna i lor nemici mai
impuniti ne andar presso ai nostri avi?
Per ogni busto di roman guerriero,
nemiche teste a mille a mille poscia