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atto primo 277
io, che il gran Cato infra mie braccia vidi

in Utica spirare. Ah! fosser pari
mie’ sensi a’ suoi! Ma in brevitá fien pari,
se in altezza nol sono. — Altri nemici,
altri obbrobrj, altre offese, e assai piú gravi,
Roma punire e vendicar de’ pria
che pur pensare ai Parti. Istoria lunga,
dai Gracchi in poi, fian le romane stragi.
Il foro, i templi suoi, le non men sacre
case, inondar vedea di sangue Roma:
n’è tutta Italia, e n’è il suo mar cosperso:
qual parte omai v’ha del romano impero,
che non sia pingue di romano sangue?
Sparso è forse dai Parti? — In rei soldati
conversi tutti i cittadin giá buoni;
in crudi brandi, i necessarj aratri;
in mannaje, le leggi; in re feroci
i capitani: altro a patir ne resta?
Altro a temer? — Pria d’ogni cosa, io dunque
dico, che il tutto nel primier suo stato
tornar si debba; e pria rifarsi Roma,
poi vendicarla. Il che ai Romani è lieve.
Anton. Io, consol, parlo; e spetta a me: non parla
chi orgogliose stoltezze al vento spande;
né alcun lo ascolta. — È mio parere, o padri,
che quanto il nostro dittatore invitto
chiede or da noi, (benché eseguire il possa
ei per se stesso omai) non pure intende
a tutta render la sua gloria a Roma,
ma che di Roma l’esser, la possanza,
la securtá ne pende. Invendicato
cadde in battaglia un roman duce mai?
Di vinta pugna i lor nemici mai
impuniti ne andar presso ai nostri avi?
Per ogni busto di roman guerriero,
nemiche teste a mille a mille poscia