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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/326

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320 bruto secondo
Cesare   Or basti. Al mio cospetto

tu, come figlio, e come a me minore,
tacerti dei. — Cesare, o Padri, or parla. —
Ir contra i Parti, irrevocabilmente
ho fermo in mio pensiero. All’alba prima,
colle mie fide legioni, io muovo
ver l’Asia: inulta ivi di Crasso l’ombra,
da gran tempo mi appella, e a forza tragge.
Lascio Antonio alla Italia; abbialo Roma
quasi un altro me stesso: alle assegnate
provincie lor tornino e Cassio, e Cimbro,
e Casca: al fianco mio Bruto starassi.
Spenti i nemici avrò di Roma appena,
a darmi in man de’ miei nemici io riedo:
e, o dittatore, o cittadino, o nulla,
qual piú vorrá, Roma a sua posta avrammi.

Silenzio universale.

Bruto — Non di Romano al certo, né di padre,

né di Cesare pur, queste che udimmo,
eran parole. I rei comandi questi
fur di assoluto re. — Deh! padre, ancora
m’odi una volta; i pianti ascolta, e i preghi
di un cittadin, di un figlio. Odimi; tutta
meco ti parla, or per mia bocca, Roma.
Mira quel Bruto, cui null’uom mai vide
finor né pianger, né pregar; tu il mira
a’ piedi tuoi. Di Bruto esser vuoi padre,
e non l’esser di Roma?
Cesare   Omai preghiere,
che son pubblico oltraggio, udir non voglio.
Sorgi, e taci. — Appellarmi osa tiranno
costui; ma, nol son io: se il fossi, a farmi
sí atroce ingiuria in faccia a Roma, io stesso
riserbato lo avrei? — Quanto in sua mente