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atto quinto | 319 |
col gran Cesare omai sola una cosa. —
Veggio inarcar dallo stupor le ciglia:
oscuro ai padri è il mio parlar; ma tosto,
d’un motto sol, chiaro il farò. — Son figlio
io di Cesare...
Grido universale di stupore.
e assai men pregio; poiché Cesare oggi,
di dittator perpetuo ch’egli era,
perpetuo e primo cittadin si è fatto.
Grido universale di gioja.
glie ne svelava io stesso. A me gran forza
fean l’eloquenza, l’impeto, l’ardire,
e un non so che di sovruman, che spira
il suo parlar: nobil, bollente spirto,
vero mio figlio, è Bruto. Io quindi, a farvi,
Romani, il ben che in mio poter per ora
non sta di farvi, assai di me piú degno
lui, dopo me, trascelgo: a lui la intera
mia possanza lasciar, disegno; in esso
fondata io l’ho: Cesare avrete in lui...
Bruto Securo io stommi: ah! di ciò mai capace,
non che gli amici, né i nemici stessi
i piú acerbi e implacabili di Bruto,
nol credon, no. — Cesare a me sua possa
cede, o Romani: e in ciò vuol dir, che ai preghi
di me suo figlio, il suo poter non giusto
Cesare annulla, e in libertá per sempre
Roma ei ripone.
Grido universale di gioja.