Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/383

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bruto secondo 377

fu a quei tempi uno dei principalissimi attori. La virtú, la fermezza, e la feroce morte di quel Romano, debbono per certo essere state un incentivo caldissimo nel cuore degli uccisori tutti di Cesare. Ma la parte di Cimbro non era quí suscettibile di quella estensione che si sarebbe richiesta per sviluppare gli alti sensi e le virtuose opinioni di Catone.

Cicerone, personaggio poco tragico, perché per la sua etá e senno, non essendo egli agitato da fortissima passione, poco commuove; mi parve tuttavia da introdursi in questa azione, ancorché il farnelo sparire al terz’atto bastantemente provi contra l’autore, ch’egli non era neppur necessario nei due primi. Necessario non era; ma, col mostrare un tale Romano di piú, col farlo opinare sovra i presenti pericoli, col farlo parlare della repubblica con quella vera tenerezza di padre, non credo di aver nojato gli spettatori. Dove pure colla severitá dell’arte giudicare si debba, non oserò io mai approvare l’intromissione d’un attore, il quale, senza cagionar mancanza nessuna, sparisce allor che l’azione si compie. Onde difficilmente le parole di Bruto, nel principio del quart’atto, basteranno a impedire qualche risatella, che s’innalzerá quando Cimbro annunzia che Cicerone è fuggito.

Il Popolo, in questa tragedia, fa una parte assai meno splendida che nell’altra. Ma credo che cosí esser dovesse. I Romani, all’uscire dal giogo dei Tarquinj, erano oppressi, sdegnati, e non ancora corrotti: all’entrare sotto il giogo di Cesare, erano licenziosi e non liberi, guasti, in ogni vizio perduti, e il piú gran numero, dal tiranno comprati. Non potea dunque un tal popolo in una tragedia di libertá aver parte, se non se nel fine; quando, commosso prima dallo spettacolo di Cesare morto, da buon servitore che egli era, imprenderebbe a vendicare il padrone. Ma allora dalla maravigliosa fermezza, dalla divina impetuosa eloquenza di Bruto egli viene arrestato, persuaso, convinto, e infiammato a ricordarsi, almeno per breve ora, ch’egli può ridivenire il popolo romano. Pare a me, che in questo sublime istante si debba finir la tragedia, se l’autore nello scriverla si propone di ricavarne il piú nobile fine ch’ella presenti; cioè un giusto ed immenso amore di libertá. Ma, dal finirla coll’aringa d’Antonio al popolo in lode e favore del morto Cesare, ne risulta per l’appunto l’effetto contrario; e con doppio difetto dell’arte si prolunga assai troppo l’azione, che giá è compita con la morte di Cesare, ed affatto si scambia il fine proposto, o che uno propor si dovea, cioè, l’amore e la