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atto terzo 145
forza fia pur che alfin ci riabbracci.

Adméto Oh figli! oh figli!... Ah, quai saette al cuore
e gl’innocenti detti, e gl’innocenti
baci vostri or mi sono! Io piú non basto
al fero strazio. I dolci accenti vostri
percosso m’hanno, e rintracciato al vivo
il dolce suon del favellar d’Alceste. —
Alceste! Alceste! — Era mia sposa il fiore
del sesso tutto: dal consorte amata,
al par di lei, non fu mai donna: ed essa
pur fu l’ingrata, essa la cruda e l’empia,
che abbandonar volle e il marito e i figli! —
Sí, figli miei, questa è colei ch’a un punto
orbi vi vuol dei genitori entrambi.
Alc.1 Oh dolore! ben odo i feri detti
del disperato Adméto. Ad ogni costo,
a me spetta il soccorrerlo con queste
ultime forze mie. Venite, o Donne;
sorreggendomi, al misero appressatemi,
ch’ei mi vegga e mi ascolti.
Adméto   Alceste? Oh cielo!
Ti veggo ancora? e quella or sei, tu stessa,
che in mio soccorso vieni? e sí pur t’odo,
mentre morente stai? Deh, sul tuo strato
riedi: a me tocca, a me, quivi star sempre
al tuo spossato fianco.
Alces.   È vana affatto
ogni cura di me: bensí convienti...
Adméto Oh voce! Oh sguardi! Or questi, ch’io pur miro
entro a mortal caligine sepolti,
son questi, oimè, quei giá sí vividi occhi,
ch’eran mia luce, e mio conforto e vita?
Qual fosco raggio balenar mi veggio
sul chino capo mio! qual moribonda


  1. Sorgendo, sorretta, dallo strato.


 V. Alfieri, Tragedie postume. 10