Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/174

Da Wikisource.
168 alceste seconda
lo stil, ch’egli ai Celesti e agl’Infernali

Numi giurava...
Ercole   O Donne, i giusti Dei
d’uom disperato i giuramenti mai
non accettan, né ascoltano. Quí vengo
d’ogni qualunque giuro a scioglierl’io. —
Adméto, a te il promisi, a te ritorno;
eccomi, sorgi. — Ma, che fia? né udirmi
pur dimostra egli?
Feréo   Oh cielo! Il rio proposto
ei fermo ha in se, non dar piú cenno niuno
d’uom vivo omai.
Ercole   Duol che di Re sia degno,
mostra, o Adméto, e non piú. Qual uom del volgo
vinto or forse ti dai? D’Ercole amico,
d’Ercole i sensi ad emular tu apprendi.
Adméto Al rampognar di cotant’uom tacermi,
viltade fora. In me volgari sensi,
Ercole, il sai, non allignar finora.
Ma priega tu l’alto tuo padre, e il priega
quanto piú caldo puoi, che a te mai noto
d’orbo amatore il rio dolor non faccia.
Travaglio egli è, sotto il cui peso è forza,
oltre ogni Erculea prova, infranger l’alma.
Securo omai per la vicina morte
me vedi, e di te degno. Or dunque, amica
la man mi porgi per l’ultima volta:
il pegno estremo, ch’io ti chieggo, o Alcide,
dell’amistade nostra santa, è il corpo,
l’amato corpo della estinta... Indarno
sottrar tu il festi da’ miei sguardi or dianzi:
non può il vederla, accrescermi dolore...
Deh, dunque impon, che mi si renda: io voglio
rivederla, e morir...
Ercole   Al tornar mio,
un qualche dolce e non leggier sollievo