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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/31

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atto terzo 25
mi fuggo invan, invan mi sprezzo, e aborro...

Tu sola forse, piú fedel nemica,
odiarmi sí, non disprezzarmi ardisci;
e ben ti sta: che, assai di me piú vile,
nel rivedermi ti confondi, e tremi;
e il reo timor, odio piú reo nasconde.
O simulata donna; angue funesto,
che il sen trafigge a chi lo rende a vita:
donna, dal ciel nell’ire sue formata,
che, di pietade indegna, ancor mi desta
mal mio grado a pietá, ch’è mio supplizio,
e mia morte talor, talor mia vita;
ma che d’infamia ognor m’intesse i giorni!
Ho la vendetta in mano; eppur la mano
non alzerò per vendicarmi; e quanto
ella sia dolce, il sai, ch’è il Nume tuo,
e il sol, che incensi, e degl’incensi tuoi,
il sol, che non si offenda... Ingrata donna...
Misero Antonio: a sí funesto fine
ti riserbava il ciel? Ti fe’ sí grande
in vita un dí, poi sí meschino in morte?
Alma luce del sol, perché rischiari
cotai misfatti d’ogni luce indegni?
Terra, dovevi, in quel fatal momento,
tremare, aprirti, e nei profondi abissi
inghiottir me, e la memoria, meco,
dell’onta mia, del tradimento iniquo.
Cleop. Prosiegui, Antonio, a dir ti resta ancora.
Di’ che pur troppo il ciel ho desto all’ira,
in quel giorno fatal, ov’io ti vidi,
ov’io t’amai, in cui perdei me stessa,
e l’onor mio, e il mio riposo, e ’l regno;
giorno fatale inver: ma pur felice,
che il rimembrarlo, al cuor m’è grato ancora:
non mi parea delitto allor l’amarti;
m’avvedo sí, ch’era delitto atroce.