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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/48

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42 antonio e cleopatra
toglier la pace al mondo, e ostare in parte

alla di te felicitá suprema,
saría delitto il riserbar pietade.
Augus. Pur troppo è ver, che la pietade ognora
non è virtú nel cuor dei regi.
Cleop.   Augusto,
assai dicesti: ogni pietade è spenta...
Ma qual ti diede il cielo alto potere
di regger l’alme con sí dolce impero?
E come mai nell’alma mia gli affetti,
a tuo piacer, tutti v’estingui, o desti? —
Tu di Cesare sei la viva imago,
e vedo in te quel portamento altero,
ed, in etá piú giovanil, gl’istessi
allori in fronte, e a palpitar nel petto
ti vedo ancor quell’alma sua divina. —
Amai Cesare un dí, né l’ebbe a sdegno;
perché, signor, non ti conobbi io prima!
Cosí, dappoi, a men gloriose fiamme,
non avrei nel mio sen dato ricetto:
Augusto, ah sí! sarei di te piú degna.
Augus. T’amò Cesare è ver; ma chi ti vide,
e non t’amò? Augusto sol fu quello,
cui involasti il cuor con la tua fama,
pria che col ciglio. Io trascorrendo all’armi
contro d’Antonio, e all’ire, in lui non vidi
solo un emolo al trono, ed alla gloria,
ma un odioso rival vi scorsi ancora;
e il mondo sol, della vittoria il prezzo,
non era, no; ch’agli occhi miei piú caro,
piú glorioso ancora era il tuo cuore.
Ma viene Antonio, e il simular fia d’uopo.
Cleop. Il suo destin, finché s’adempia, ignori.