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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/49

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atto quarto 43



SCENA TERZA

Antonio, Augusto, Cleopatra.

Anton. Oh ciel! che miro? e fia pur ver? Cleopatra,

tu con l’abominato mio nemico?
Oh! gelosia crudel, furor, vendetta,
se a smarrir la ragione in me bastate,
come;... perché, la disperata mano
non bastate a guidar nell’imo cuore
d’entrambi i traditor?
Cleop.   Antonio, e quando
agli odiosi sospetti, e ai crudi insulti
meta porrai?
Anton.   Quando le Parche ingorde
avran fatto di me barbaro scempio.
Augus. Qual insano furor t’offusca il senno?
Per qual ragion debol mi credi, ed empio?
T’inganni assai, e tu non pensi, o Antonio,
che il tuo furore, in me furor non desta,
ma che potria bensí destar pietade.
Anton. Dal tuo cuor la pietade omai sbandisci:
falsa m’adira, e m’avvilisce vera,
e qualsivoglia in te m’offende ognora.
Nulla attendo da Augusto, e nulla chiedo;
quanto poté, involommi, e sol mi resta
un ben, che ognor ebbe i tiranni a scherno;
questo è l’alma romana, e non soggiace
alle sventure mai, anzi piú altera
tale riserba in se natia fierezza,
che, vinta, ancor può al vincitor far onta.
La mano istessa d’una donna imbelle,
che a me toglie l’impero, a te lo dona;
né so di noi, chi piú arrossir dovrebbe.
Cleopatra, ad Augusto or mi posponi,
e n’hai ragion, che l’alma tua ben degna