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166 rime varie


Tai vampe in me dagli anni or semi-spente,
D’indagar ciò che altrove altri dicea
11 Destan vaghezza entro all’ignuda1 mente:
Ma, sdegnosa, l’altera Attica Dea2
Torva mi guarda, e sgridami repente:
14 «Me conosci, e te stesso; o dormi, o crea».3


CLXIII.4

Nulla di nuovo al mondo.

Cose omai viste, e a sazietà riviste,
Sempre vedrai, s’anco mill’anni vivi:
E studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi,
4 Mai non fia ch’oltre l’uom passo ti acquiste.5
Sue cagioni ha Natura, in se frammiste
D’alti Principj d’ogni luce schivi,
E di volgari, a cui veder tu arrivi,
8 Se pazïenza e brama in te persiste.
Ma, a che il saper ciò che imparar pon tutti?6
Che prò il crear, poiché creando imíti?
11 Che prò indagar, se in piú indagar men frutti?7
Muori: ei n’è tempo il dí, che indarno arditi
Gli occhi addentrando nei futuri lutti,
14 Cieco esser senti e d’esserlo t’irríti.8


  1. 11. Ignuda, priva di coltura.
  2. 12. La dea della poesia greca, e fors’anche la lingua stessa della Grecia.
  3. 14. «Conosci quanto io sia ardua ad apprendersi, pesa il tuo ingegno e la tua tarda età; e quindi, o cessa da questa inane fatica o continua a crear di tuo genio».
  4. Il presente sonetto ha nell’Autografo una strana annotazione: «5 decembre. Cominciatolo dormendo, finito passeggiando».
  5. 1-4. Questi versi ricordano le sconsolate parole dell’Ecclesiaste: «Vanità delle vanità..... ogni cosa è vanità.... Quello che è stato è lo stesso che sarà; e quello che è stato fatto è lo stesso che si farà; e non vi è nulla di nuovo sotto il Sole».
  6. 9. Alcune leggi della Natura sono impenetrabili alla mente umana; ad altre ognuno può giungere, se lo desidera, con la pazienza; e allora, che vale imparar quello che tutti possono apprendere?
  7. 11. A che pro indagare, se quanto piú indaghi, minori risultati tu ottieni?
  8. 12-14. Il giorno in cui l’uomo si avvede della vanità di tutti i suoi sforzi, quello è il giorno in cui per esso è meglio morire.