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di vittorio alfieri 243


E a’ suoi Pronomi triplicati a vuoto,1
36 E al tener sempre i suoi Lettori intensi...2
E all’ostinato mio superbo voto
Di non chieder consiglio né accettarlo,
39 Se non se da Scrittor per fama noto:3
Dico ben, Don Buratto? E questo è il tarlo
Che inimicommi la insegnante schiera,4
42 Al cui solenne Imperatore or parlo.
Ma via, si ammansi: io non son piú quel ch’era:
Molle son fatto, ed umile, e manoso;5
45 La mi cavalchi da mattina a sera.
Io sto ad udirla, d’imparar bramoso:
La non mi celi alcun dei begli arcani,
48 Ond’esce il grave scrivere ubertoso.6
Sappia da prima, che agl’ingegni sani,
Signor Tragico mio, non piace il forte,
51 «Nè il velame aspro de’ suoi versi strani».7
Piacer senza fatica il carme apporte,8
E armonia copïosa lenitiva9
54 Che orecchi e cuore e spiriti conforte.


  1. 35. «Gliela do vinta quanto ai pronomi, e già son tolti dai due primi atti del Filippo i due t’hai tu, che son stati il Sibolet degli Effraimiti, che facea gridar contro loro: muoja». Però, in un epigramma del 27 sett. 1763:
    Tolti di mie tragedie i due t’hai tu,
    Le intendi piú?
    Dunque in esse null’altro era di piú,
    Lettor, che tu.
  2. 36. Intensi, nel significato di intenti, con l’animo sospeso, ansiosi di conoscer la catastrofe.
  3. 37-39. . . . . «subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell’Università [di Pisa], i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e là l’espressioni, ma neppure con quella severità che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan cose dette felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga e triviale a giudizio mio: a giudizio dei Barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida diceano e sonante. Non c’intendevamo. Io chiamava languido e triviale ciò ch’essi diceano fluido e sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto fra noi, perché io a meraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti: era però ben fermo di volere prima d’ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d’imparare negativamente, ciò che non va fatto: dal tempo, dall’esercizio, dall’ostinazione e da me, io mi lusingava poi d’imparare quel che va fatto». (Aut., IV, 2°).
  4. 41. La insegnante schiera, la schiera di coloro che pretendono dettar legge in fatto di lingua e di buon gusto.
  5. 44. Manoso, cedevole, arrendevole, e si dice particolarmente dei panni.
  6. 48. Grave, pesante, cattedratico; ubertoso, fiorito, pieno di quegli artifici retorici, tanto in odio all’A.
  7. 49-51. Dante (Inf., IX, 61 seg.):
    O voi che avete gl’iutelletti sani,
    Mirate la dottrina che s’asconde
    Sotto il velame degli versi strani!
  8. 52. Al contrario, l’A. si vantava, con giusto orgoglio, che la sua tragedia obbligasse a pensare:
    Mi trovan duro:
    Anch’io lo so:
    Pensar li fo.
  9. 53. Copiosa, abbondante; lenitiva, che accarezza e quasi addormenta.