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130 vittorio alfieri


CCIV (1789).

L’Attica, il Lazio, indi l’Etruria, diero
In lor varie flessibili favelle
Prove a migliaja, ch’ogni cosa è in elle,
E il forte e il dolce e il maestoso e il vero.

Tarde poi, sotto ammanto ispido fero
Sorser l’altre Europée genti novelle,
Stridendo in rime a inerme orecchio felle,
E inceppate in pedestre sermon mero.

Ciò disser, Carmi; e chi ’l credea, n’è degno.
Nè bastò; ch’essi, audacemente inetti,
Osaro anco schernir l’Italo ingegno.

Di tai loro barbarici bei detti
Vendicator, d’ira laudevol pregno,
Giungo, securo dall’averli io letti.

CCV (1789).

Non, perch’egli sia gelo, il verno biasmi:
Nè la notte, perchè tenebre sia;
Non, perchè infido, il mar; non, perchè ria,
La guerra; o perchè sien falsi i Fantasmi.

Natura il vuol; nè avvien ch’ella mai plasmi
Tripede l’uomo; o ch’ali al tergo dia
Di sotterranea talpa; o leggiadrìa
All’asin goffo, nei venerei spasmi.

Dunque, perchè d’un assoluto Sire
Biasmar vuoi tu la crudeltade inetta,
Le rapaci unghie, ed il codardo ardire?

L’esser da nulla, a dritto appien si aspetta
A chi può tutto. — Invito alto al fallire
È il non temer giustizia nè vendetta.