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rime varie 67


LXXXVI (1783).

Italia, o tu, che nulla in te comprendi
Di grande omai, che l’aurea tua favella,
E la donna che a me fra tutte è bella,
Ch’or rattener contro sua voglia imprendi:

Verrà quel dì, ch’io ’l duro fallo ammendi
D’esser libero figlio a madre ancella,
Col non ripor mai piede entro tua fella
Terra, ove il varco a virtù sol contendi?

Rapido vento orïental m’invola
Già dalla vista di tua infausta riva;
Ma il cor, l’alma, il pensiero indietro vola.

Fatal contrasto, in cui forza è ch’io viva!
O l’amata mia donna lasciar sola;
O rivederla ove di pace è priva.

LXXXVII.

Vittima (oimè!) di vïolenti e stolte
Leggi, per cui col buono il rio s’innesta,
Mena i suoi giorni in orrida tempesta
Colei, che ha in sè tutte virtudi accolte.

Io già l’udía ben mille e mille volte
Piangendo dire, in suo dolor modesta:
S’altri è pur lieto di mia vita mesta,
L’aspre catene mie non sien mai sciolte. —

Qual moglie mai, qual madre era a te pari
Se tu, avvinta a gentil degno compagno,
Figli a lui davi numerosi e cari?

Ma il mondo tristo, e l’inuman guadagno,
Che fa increscer le figlie ai padri avari,
Son la cagion del nostro inutil lagno.