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Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/113

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CANTO XXV

     Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
3gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»
     Da indi in qua mi fur le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
6come dicesse ‛ Non vo’ che piú diche ’;
     e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo se stessa sí dinanzi,
9che non potea con esse dare un crollo.
     Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sí che piú non duri,
12poi che in mal fare il seme tuo avanzi?
     Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
15non quel che cadde a Tebe giú da’ muri.
     El si fuggí che non parlò piú verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
18venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?»
     Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
21infin ove comincia nostra labbia.
     Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
24e quello affuoca qualunque s’intoppa.
     Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che sotto il sasso di monte Aventino
27di sangue fece spesse volte laco.