Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/120

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114 la divina commedia

     «S’ei posson dentro da quelle faville
parlar,» diss’io «maestro, assai ten priego
66e riprego, che il priego vaglia mille,
     che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
69vedi che del disio ver lei mi piego!»
     Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
72ma fa che la tua lingua si sostegna.
     Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
75perché fur greci, forse del tuo detto».
     Poi che la fiamma fu venuta quivi,
dove parve al mio duca tempo e loco,
78in questa forma lui parlare audivi:
     «O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,
81s’io meritai di voi assai o poco
     quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
84dove per lui perduto a morir gissi».
     Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
87pur come quella cui vento affatica;
     indi la cima qua e lá menando,
come fosse la lingua che parlasse,
90gittò voce di fuori, e disse: «Quando
     mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me piú d’un anno lá presso a Gaeta,
93prima che sí Enea la nomasse,
     né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ’l debito amore
96lo qual dovea Penelope far lieta,
     vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
99e de li vizi umani e del valore;