Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/152

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146 la divina commedia

     Queta’mi allor per non farli piú tristi;
lo dí e l’altro stemmo tutti muti:
66ahi dura terra, perché non t’apristi?
     Poscia che fummo al quarto dí venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
69dicendo: ‛ Padre mio, ché non m’aiuti? ’
     Quivi morí; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
72tra ’l quinto dí e ’l sesto; ond’io mi diedi,
     giá cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dí li chiamai poi che fur morti:
75poscia, piú che ’l dolor, potè ’l digiuno».
     Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
78che furo a l’osso, come d’un can, forti.
     Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese lá dove ’l sí sona,
81poi che i vicini a te punir son lenti,
     muovasi la Capraia, e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
84sí ch’elli annieghi in te ogni persona!
     Ché se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
87non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
     Innocenti facea l’etá novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
90e li altri due che ’l canto suso appella.
     Noi passammo oltre, lá ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
93non vòlta in giú, ma tutta riversata.
     Lo pianto stesso lí pianger non lascia,
e ’l duol che trova in su li occhi rintoppo,
96si volge in entro a far crescer l’ambascia;
     ché le lagrime prime fanno groppo,
e sí come visiere di cristallo,
99riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.