Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/153

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inferno - canto xxxiii 147

     E avvegna che sí come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
102cessato avesse del mio viso stallo,
     giá mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
105non è qua giú ogni vapore spento?»
     Ed elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti fará l’occhio la risposta,
108veggendo la cagion che ’l fiato piove».
     E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
111tanto che data v’è l’ultima posta,
     levatemi dal viso i duri veli,
sí ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
114un poco, pria che il pianto si raggeli».
     Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
117al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
     Rispose adunque: «I’ son frate Alberigo;
io son quel da le frutta del mal orto,
120che qui riprendo dattero per figo».
     «Oh!» diss’io lui «or se’ tu ancor morto?»
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
123nel mondo su, nulla scienza porto.
     Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
126innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
     E perché tu piú volentier mi rade
le ’nvetriate lacrime dal volto,
129sappie che tosto che l’anima trade
     come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
132mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
     Ella ruina in sí fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
135de l’ombra che di qua dietro mi verna.