Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/194

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188 la divina commedia

     Io non vidi, e però dicer non posso,
come mosser li astor celestiali;
105ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.
     Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
fuggí ’l serpente, e li angeli dier volta,
108suso a le poste rivolando iguali.
     L’ombra che s’era al Giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
111punto non fu da me guardare sciolta.
     «Se la lucerna che ti mena in alto
trovi nel tuo arbitrio tanta cera,
114quant’è mestiere infino al sommo smalto,»
     cominciò ella «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
117sai, dillo a me, che giá grande lá era.
     Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi:
120a’ miei portai l’amor che qui raffina».
     «Oh!» diss’io lui «per li vostri paesi
giá mai non fui; ma dove si dimora
123per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
     La fama che la vostra casa onora
grida i signori e grida la contrada,
126sí che ne sa chi non vi fu ancora;
     e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
129del pregio de la borsa e de la spada.
     Uso e natura sí la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
132sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
     Ed elli: «Or va, che ’l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ’l Montone
135con tutti e quattro i piè cuopre ed inforca,
     che cotesta cortese opinione
ti fia chiavata in mezzo de la testa
138con maggior chiovi che d’altrui sermone,
     se corso di giudicio non s’arresta».