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Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/277

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purgatorio - canto xxv 271

     e senza udire e dir pensoso andai
lunga fiata rimirando lui,
102né, per lo foco, in lá piú m’appressai.
     Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
105con l’affermar che fa credere altrui.
     Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
108che Letè nol può tòrre né far bigio:
     ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
111nel dire e nel guardare avermi caro».
     E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerá l’uso moderno,
114faranno cari ancora i loro inchiostri».
     «O frate,» disse «questi ch’io ti cerno
col dito,» e additò uno spirto innanzi,
117«fu miglior fabbro del parlar materno.
     Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
120che quel di Lemosí credon ch’avanzi:
     a voce piú ch’al ver drizzan li volti,
e cosí ferman sua opinione
123prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
     Cosí fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
126fin che l’ha vinto il ver con piú persone.
     Or se tu hai sí ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
129nel quale è Cristo abate del collegio,
     falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
132dove poter peccar non è piú nostro».
     Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
135come per l’acqua il pesce andando al fondo.