Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/301

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purgatorio - canto xxxi 295

     Quali i fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
66e sé riconoscendo e ripentuti,
     tal mi stav’io; ed ella disse: «Quando
per udir se’ dolente, alza la barba,
69e prenderai piú doglia riguardando».
     Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
72o vero a quel de la terra di Iarba,
     ch’io non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
75ben conobbi il velen de l’argomento.
     E come la mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
78da loro aspersion l’occhio comprese;
     e le mie luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice vòlta in su la fèra
81ch’è sola una persona in due nature.
     Sotto ’l suo velo e oltre la riviera
vincer paríemi piú se stessa antica,
84vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.
     Di pentèr sí mi punse ivi l’ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
87piú nel suo amor, piú mi si fe’ nemica.
     Tanta riconoscenza il cor mi morse,
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
90salsi colei che la cagion mi porse.
     Poi, quando ’l cor virtú di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
93sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!»
     Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
96sovresso l’acqua lieve come scola.
     Quando fui presso a la beata riva,
Asperges me ’ sí dolcemente udissi,
99che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.